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3 febbraio 2014 1 03 /02 /febbraio /2014 20:55

Cos'è l'agonismo non competitivo... Una formulazione che, paradossale in apparenza, ha un suo senso profondoLo scritto di Elena Cifali, in cui a partire da una partita di pallanuoto Under 13 si fanno considerazioni su senso del far praticare degli sport competititivi ai giovani e ai giovanissimi (Riflessioni in margine ad un incontro di pallanuoto giovanile, seguito da una mamma che è anche atleta), mi ha fatto ricordare di un articolo che mi ritrovai a scrivere qualche anno addietro, stimolato dall'essere stato presente ad una comptizione di giovani leve del Karate, presieduto dal Maestro Pscar Higa.
Tra i giovani virgulti che si cimentavano vi era anche mio figlio che, nel 2003 (anno in cui scrissi l'articolo) aveva circa 10 anni. Rimasi profondamente colpito dalla ricchezza della lezione morale impartita sia ai genitori presenti, sia ai suoi allievi prima che la competizione in senso stretto prendesse l'avvio, tanto che poi, ragionandoci su nei giorni successivi, elaborai il concetto - apparentemente paradossale di "agonismo non competitivo" come basa sana e formativa alla vita di ogni tipologia di sport si voglia praticare.

Un concetto paradossale che, cionondimeno, può avere un senso.

Non ritrovandolo più in memoria nel mio PC (ne posseggo tuttavia una stampa cartacea), l'ho ricercato - e ritrorvato nella rete (chi vuol vedere l'allocazione originale dell'articolo può seguire il link).
Lo ripropongo qui, con molto piacere. 
La frase che fa da epigrafe al testo la scrissi io stesso, come forma sintetica per una mia presentazione personale nel sito web della società podistica cui aderivo a quel tempo.

 

Amo correre in solitudine e nel silenzio, amo la corsa perché mi aiuta a pensare meglio; ma soprattutto amo la corsa perché mi fa sentire il contatto con il divino immanente nelle cose. Vorrei… fare proseliti tra chi è più desideroso di praticare forme di agonismo non competitivo.[1]

 

Una breve premessa

Queslla citata in epigrafe è la frase che ho formulato per completare la mia scheda personale, rinvenibile nel sito web della mia società podistica: un tentativo approssimativo di caratterizzare me stesso e ciò che mi anima nell’approccio alla corsa di lunga distanza.

Credo che questa mia frase e soprattutto la formulazione conclusiva con il riferimento alla categoria dell’“agonismo non competitivo” abbia suscitato perplessità ed interrogativi tra gli altri soci del club, tanto che ho dovuto “battagliare” non poco perché la frase che io avevo costruito venisse inserita integralmente esattamente come io l’avevo pensata.

Alla fine, hanno prevalso le mie ragioni e la frase è stata inserita tale e quale.

Ciò nonostante, sono certo che molti continuano ad essere tormentati dagli interrogativi e dalla contraddizione in termini che sentono insita nella formulazione di “agonismo non competitivo”.

Voglio provare a spiegare a tutti i dubbiosi e ai perplessi cosa io voglia intendere per “agonismo non competitivo”, quando parlo dello spirito con cui mi accosto alle gare podistiche di lunga distanza.

In vista di questo scopo, mi avvarrò di osservazioni mutuate da un’altra attività sportiva che mio figlio ha cominciato a praticare circa due anni fa. Credo che le considerazioni che seguono possano interessare molto noi podisti amatori; infatti,  a volte,  fuorviati da una piena aderenza allo spirito gioioso che dovrebbe legarci alla corsa da pressioni e suggestioni di altro genere, siamo spinti ad importare in modo massivo nella nostro modo di fare sport tutte intere le nostre nevrosi quotidiane. E allora la corsa da buona pratica che dovrebbe servire ad evadere dallo stress della vita moderna e come strumento per costruire significati di vita più profondi, diventa soltanto una forma di  schiavitù di asservimento e fonte di ulteriore stress.

Un esempio significativo: la pratica dello sport come fonte d’insegnamenti di vita

L'altro giorno ho accompagnato mio figlio Francesco, ad una gara di Karate-Do, organizzata nella palestra che frequenta.

Questa sarebbe stata la prima gara di Francesco, da quando ha iniziato a praticare questa disciplina sportiva: periodicamente, ha fatto gli esami per il passaggio da un livello all’altro, ma questa sarebbe stata un’occasione speciale: si tratta di un evento pubblico, alla presenza di tutti i genitori, mentre gli esami per il passaggio di livello si svolgono sempre a porte chiuse.

L'anno scorso, nello stesso periodo, Francesco non aveva potuto partecipare ad un’analoga gara, che cadeva dopo il primo anno di addestramento, perché proprio nell’imminenza di essa, all’improvviso, con suo grande rammarico, s’era ammalato.

Questa volta, anche a causa dell’imprevedibile defezione dell’anno prima, Francesco era ovviamente molto emozionato, ma – del resto – in maniera non diversa da tutti gli altri ragazzini di età diverse e con un diverso livello di abilità già acquisito in Karate-Do, per l’occasione convenuti in Palestra.

Cos'è l'agonismo non competitivo... Una formulazione che, paradossale in apparenza, ha un suo senso profondoIl loro Maestro, Oscar Higa, una persona davvero eccezionale[2], prima di dare inizio alla gara, che si svolge secondo un rituale piuttosto rigido, ha voluto indirizzare un discorso introduttivo, vorrei anche dire intensamente "formativo", ai bambini, alcuni dei quali si trovavano a gareggiare per la prima volta, ma soprattutto - ha tenuto a sottolineare - ai genitori.

Il Maestro ha detto[3]:

“Fra poco daremo inizio alla gara.

“Ma prima voglio dire a tutti voi alcune semplici parole sul suo significato della gara e sul giusto atteggiamento da tenere nei suoi confronti.

“Bisogna che i bambini, innanzitutto, possano divertirsi; che partecipino per divertirsi; non è importante chi vince e chi perde; l'importante è avere partecipato ed essersi divertiti per questo; quindi, l'allenamento e le gare vanno sempre affrontate come un gioco; se per i vostri figli il Karate non è più un gioco [e ha detto queste parole, rivolgendosi a noi genitori] fate fare loro altro… non costringeteli a perseverare…

“In ogni caso, voi non dovete dare troppa importanza alla vittoria., intesa come il momento in cui uno più forte stabilisce il suo primato sull’altro.

“Fare il Karate è apprendere una disciplina e i vostri bambini, giocando, a poco a poco possono acquisire una maggiore sicurezza in sé stessi è questa è sicuramente una vittoria.

“Aver partecipato ed essersi confrontati con le difficoltà di una gara è già, di per sé, un'altra vittoria.

“Io ho formato alcuni che adesso sono diventati campioni del mondo, ma questo non è importante. La cosa importante è arrivare in fondo alle cose che si intraprendono. La vita è come una corsa, una lunga corsa… E che senso c'è nella corsa di uno che, all'inizio, parte come un forsennato e che, ad un certo punto, non reggendo alla distanza dovrà fermarsi...?

“E' più saggio andare piano all'inizio  per potere resistere a lungo. La vita è questo, è fatta in questo modo… Lo sport deve servire per formarsi a questo, perché i bambini a poco a poco possano acquistare sicurezza e crescere, sentendo una maggiore capacità di padroneggiarsi.

“Quindi voi [ nuovamente rivolgendosi ai genitori] non dovete fare pressioni sui vostri figli perché siano i più forti, i più veloci...

“Ma ora diamo inizio alla gara!"

Queste parole hanno conferito una solennità quasi rituale alla gara che si è dipanata subito dopo.

Una gara che non aveva nulla a che vedere con la concezione di gara a cui ci hanno abituato i mass-media.

Ogni allievo, infatti, si esibiva da solo di fronte a quattro giudici che, per quanto occidentali, manifestavano nei gesti e nelle posture una certa severità rituale: compito di ogni allievo era quello di mettere in atto il Kata (cioè una sequenza precisa di mosse) da lui stesso prescelto, quella sequenza che ritenesse di padroneggiare meglio.

All’esibizione di ciascuno, faceva seguito l’attribuzione di un punteggio che poi veniva utilizzato per collocare ciascuno dei concorrenti in una classifica.

Ma, a prescindere dal modo di svolgimento della gara, mi è sembrato che le  parole di grande saggezza e sapienza del maestro Higa gettassero, per estensione, su tutte le altre pratiche sportive un potenziale significato filosofico che sembra essersi perso irrimediabilmente in un universo di riferimenti culturali che valorizzano al massimo la capacità di prestazione, il livello "performativo", l’aggressività e la lotta, orientante al dominio e alla prevaricazione.

Le parole del maestro Higa rappresentano dunque una preziosa lezione di vita, anche perché egli in modo semplice, ma profondo, ha dato risalto all'aspetto intrinsecamente formativo di una pratica sportiva fondata su questi precetti.

La scuola di Karate, di cui il maestro Higa è un illustre rappresentante, qualificato e conosciuto a livello mondiale, rifugge dal considerare il Karate come una semplice tecnica di lotta.[4]

Sì, indubbiamente, quest’aspetto è nelle origini  del Karate e di altri arti marziali orientali, essendone, nello stesso tempo,  una possibile applicazione, ma soprattutto l’intero corpus di precetti e di tecniche del Karate deve essere visto come un “processo” di addestramento che disciplina il corpo e la mente: attraverso l'esercizio e la crescente abilità nell'eseguire kata sempre più elaborati e complessi, l'allievo impara anche una disciplina della mente, apprendendo al tempo stesso un'estetica della corporeità e dei gesti atletici, in una profonda armonia di soma e di psiche.

Ma questa è comunque una comune caratteristica del pensiero orientale, del modo della mente orientale di accostarsi alla realtà: dietro la prassi, dietro l’esecuzione materiale di qualsiasi gesto, vi è una precisa filosofia di vita.

È bello constatare che una scintilla di pensiero orientale si sia potuta trapiantare dalle nostre parti e che mantenga intatta tutta la sua forza, non contaminata in alcun modo da uno stile di pensiero “unificato” proprio delle strategie della globalizzazione.

I giovani allievi di Karate-Do, dunque, vengono addestrati soprattutto nell'esecuzione dei diversi kata, in esecuzione individuale o di gruppo, senza che quasi mai si passi all'applicazione marziale delle tecniche apprese, nel senso del confronto diretto con un avversario.

L’applicazione delle tecniche apprese in forme rituali di combattimento con un avversario, semmai, avverrà in una fase successiva, quando le tecniche del movimento e le filosofie sottese siano già state profondamente interiorizzate.

Secondo uno dei principi fondanti della filosofia, sottesa a questa disciplina, le tecniche del Karate non devono essere delle “armi” per offendere l’avversario, ma strumenti di  equilibrio del proprio essere, anzi mezzi che, attraverso un controllo sulla propria aggressività e sulla propria forza, consentano di integrare armonicamente questi elementi nella mente.

È  chiaro che, all'interno di questa cornice, è risibile pensare che ci possa essere qualcuno che vince e qualcuno che perde, e che abbia importanza puntualizzare chi sia il vincitore: in realtà, date queste premesse “filosofiche” tutti vincono, nessuno perde.

Perde soltanto chi, erroneamente, abbia messo al primo posto nella sua scala di valori la necessità della vittoria ad ogni costo.

I ragazzini sono naturalmente portati al gioco: se, nella mente giovane di qualcuno di loro, sfortunatamente, dovessero rinvenirsi l’ossessione per la vittoria e il bisogno di primeggiare ad ogni costo, ciò non è uno stato originario del bambino, ma è stato inculcato - purtroppo - dai genitori e da altri adulti significativi.

Oggi, sempre di più, si tende a disprezzare chi non eccelle nella pratica sportiva.

Secondo questo universo di significati bisogna essere sempre dei vincitori, mentre l'implicito sotteso a questo “must” è che non ci debba essere posto per i perdenti.

A supporto di quest’assetto di pensiero, vi è un forte disprezzo per chi non è in condizione di eccellere, per chi pratica un'attività sportiva soltanto perché vuole divertirsi oppure persegue il desiderio di star bene con sé stesso e con gli altri.

Quali le radici etimologiche della parola “agonismo”?

D'altra parte, la parola "agonismo" nelle sue origini etimologiche è correlata piuttosto all'accezione di divertimento, cioè di attività ludica che si svolge in un contesto pubblico (da questo punto di vista, visto che l’etimo della parola è il greco agwn vi è una certa comunanza di origine con la parola agorà, che significa piazza/spazio aperto) senza una specifica finalità o utilità, ma semplicemente con l'obiettivo di trarne un divertimento.

Quindi, l’agonismo implica il riferimento allo spazio aperto, il luogo per l’adunanza, la piazza davanti al tempio, il circo e, per traslato, la folla che va ai giochi, l’assemblea, l’adunanza.

Soltanto, in un passaggio successivo dello spettro di significati dell’etimo, è contenuto il riferimento ai significati di lotta, combattimento, gara, giochi, disputa giudiziaria etc.

Da questo punto di vista, non si può non ricordare che le parole “agonismo” e “agonia” sono strettamente correlate tra loro.

Ma ciò che mi preme sottolineare qui, senza scivolare in disquisizioni troppo sottili, è che il primo, originario, significato della parola in questione (agwn) è quello di spazio pubblico, in cui la folla si raduna e dove, secondo una codifica rituale, hanno luogo dei giochi.

La ritualità, e dunque la regolamentazione per mezzo di regole condivise, precise ed inderogabili, la delimitazione di un tempo e di uno spazio in cui debba avere luogo l’”agone”, hanno un’importanza fondamentale nella definizione di “agonismo”: la delimitazione di spazio e tempo, l’esistenza di regole precise ed inderogabili implicano un ordine, la cui violazione implica il fatto che si cessi di giocare il gioco e che si ritorni ad una sorta di stato di natura non regolamentato.

La definizione di agonismo/sport, come attività in cui si vince o si perde, e non come attività cui si partecipa pubblicamente sottomettendosi a delle regole, implica il fatto che, contrariamente a quanto oggi alcuni vogliano pensare alle gare di una disciplina sportiva non partecipino soltanto dei campioni ma anche tutti quelli che semplicemente desiderano “cimentarsi”, nello spazio e nel tempo rituale dell’agon.[5]

Ma tutto ciò oggi sembra essersi perso. Come illustra con ampiezza di argomentazioni l’autore del saggio citato, oggi l’agonismo tende sempre di più a perdere quei caratteri – ritenuti indispensabili da Huizinga – di gioiosità, di ludicità e di puro godimento che, nelle loro origini, contraddistinguevano le pratiche sportive e che le facevano essere soprattutto degli strumenti efficaci per costruire un equilibrio del corpo e della mente nel mondo naturale.

Adesso, ai nostri giorni, la pratica sportiva, masticata e digerita, in definita interpretata come strumento consumistico,  dai mass-media serve piuttosto a chiudere il cerchio dell’asservimento ai valori propri di un sistema che predilige in ogni manifestazione la costruzione di rapporti di potere, fondati sulla violenza (più o meno manifesta) e sulla prevaricazione.

La forma moderna degli sport, con la generalizzata celebrazione del campione che corre più veloce, che salta più in alto, che colpisce più duro, sviluppatasi in coincidenza del “macchinismo industriale”, riflette in pieno in modo sempre più deteriore – grazie all’ulteriore inquinamento spettacolaristico determinato dallo stile comunicativo dei mass-media -  tutte le categorie del sistema capitalistico moderno e post-moderno: lo sport nella sua forma moderna riflette dunque

…la competizione, come concorrenza sociale generalizzata; la ricerca sistematica del rendimento; la sua costante misura e la continua tendenza al miglioramento, cioè al record.[6]

Forse, per questi motivi, è utile parlare di agonismo “non competitivo”…

Per questo, a me piace parlare piuttosto di "agonismo non competitivo": è un modo per riportare l'agonismo alle sue radici etimologiche: chi pratica l'agonismo in una delle tante discipline sportive, secondo quest’accezione, è (dovrebbe essere) in gara innanzitutto con sé stesso, è in gara per vincere sé stesso, ma – soprattutto – è in gara per divertirsi, per sperimentare momenti ludici che lo allontanino dall’utilitarismo dominante nella vita quotidiana e nei rapporti di produzione.

Ma, secondo questa stessa accezione, si è anche in gara per potere sperimentare stupore e meraviglia, per potere apprendere dall’esperienza, in definitiva per “formarsi”: quando ci si mantiene capaci di raccogliere i minuti eventi della vita quotidiana, vedendone ogni volta aspetti nuovi, di percepire lo stupore e la meraviglia insiti nelle cose, di sperimentare turbamento; oppure quando si è in condizione di tornare ad uno stato duttile della mente, allora si è capaci di apprendere e di crescere in un infinito percorso formativo del proprio Sé.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma, allora, che bisogno c'è di partecipare ad una gara, ad un evento sportivo, se deve valere il principio che ciascuno è in gara con sé stesso, ognuno può gareggiare come e quando vuole: in realtà, l'evento sportivo, con il suo tipico assetto organizzativo, con il suo pubblico, fornisce il contesto in cui collocare la propria prestazione sportiva e soprattutto la dimensione rituale di questa partecipazione, ovviamente anche la codifica del proprio modo di partecipare nel rispetto di alcune specifiche regole.

Sbaglia chi pensa che la valorizzazione della partecipazione ad un dato evento sportivo dipenda dalla capacità di essere competitivo allo stremo in antagonismo con degli avversari; sbaglia chi disprezza gli ultimi; sbagliano quelli che, essendo ultimi, si rodono la mente con il pensiero ossessionante che non sono stati tra i primi e pensano di essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di arrivare tra i primi.

Secondo me, tutti quelli che praticano gli sport immersi in questi rete di riferimenti rischiano di diventare “vittime” inconsapevoli dello sport, vittime di una vera e propria “malattia”, una sorta di nevrosi ossessiva applicata alla pratica sportiva.[7]

Invece, è importante poter partecipare per esserci, partecipare per divertirsi, partecipare per fare esperienza e per "formarsi" con e attraverso la pratica sportiva, considerando che non c'è mai nulla che sia definito una volta per sempre e che ciascuno di noi è immesso in un percorso formativo del carattere che non dovrebbe mai avere fine.

La volontà di vittoria ad ogni costo inquina ogni pratica sportiva e provoca una serie di effetti deleteri...

Innanzitutto, inquina la mente dello sportivo e del tifoso.

In secondo luogo, guasta il godimento del gesto atletico e lo svilisce.

In terzo luogo, alimenta in modo incontrollabile forme di aggressività nei confronti di colui/quelli che è/sono identificati come avversario/i da battere.

In quarto luogo, impedisce di provare genuina "ammirazione" nei confronti di chi si impegna in armonia con le sue forze in una prestazione sportiva di rilievo, pur non potendo eccellere in termini di prestazione "oggettiva".

In quinto luogo, apre la strada ai trucchi, alle menzogne e alle falsificazioni...

Soltanto così al giorno d'oggi si può spiegare la diffusione delle pratiche dopanti, che tendono a migliorare le prestazioni oppure, in alcune tipologie di eventi sportivi, la pratica dell'inganno (come, ad esempio, quelli che nella Centochilometri del Passatore si fanno trasportare in auto da amici compiacenti oppure quelli che, in gare più brevi, sfruttando le disattenzioni di chi presidia il percorso e dell'assenza di giudici di gara “tagliano” allegramente, facendosi sconti significativi sui chilometri da percorrere).

Lo sport, immesso in questa dimensione, rischia di diventare un affare davvero squallido...

Ma, per fortuna, ci sono persone come Oscar Higa che tentano di trasmettere ai ragazzini un profondo messaggio formativo e che, per questo, prima ancora che maestri “tecnici” di discipline sportive meritano di essere considerati come dei veri Maestri di vita..

 

Palermo, il 23 Aprile 2003

 

 

 



[2] Per un imperscrutabile disegno del destino il Maestro Oscar Higa, erede di un’antica progenie di karateki, e il più giovane 8° Dan della storia della Federazione di Karate-Do di Okinawa, si è fermato a Palermo, dove insegna, assieme ai suoi istruttori, il Karate-Do Kyudokan (dal pieghevole dell’Associazione Sportiva Culturale Okinawa).
Ma, a parte queste doti e al di là dell’illustre tradizione che egli rappresenta, Il Maestro Higa è una persona di grande affabilità, capace di utilizzare indubbie doti carismatiche per trasmettere il suo insegnamento.
Per un approfondimento segui il link

[3] Le parole del Maestro Higa, di seguito riportate – spero abbastanza letteralmente - rispecchiano fedelmente l’obiettivo fondamentale della Scuola che, al di là dell’aspetto tecnico e del successo sportivo “competitivo”, è dato dal progetto di contribuire alla formazione integrale della persona (ib.).

[4] Si vedano a questo riguardo le note su Il karate-Do e il bambino, sempre nel pieghevole già menzionato dell’Associazione Sportiva Culturale Okinawa. Qui si può leggere: “Contrariamente a quanto la gente possa credere, la pratica del Karate-Do nei bambini non provoca in loro violenza né lesioni di nessuna natura. Il bambino impara dall’inizio a controllare l’aspetto tecnico-muscolare e la fase aggressiva e le lezioni si sviluppano in un ambiente che favorisce la socializzazione e il rispetto reciproco. Inoltre la pratica di questa disciplina agisce nel bambino come un efficace e naturale sistema per sviluppare una sana personalità. (…) Il bambino acquisendo una buona forma fisica, psichica e spirituale sarà agevolato ad affrontare il futuro con più serenità” (ib.).

[5] Questi aspetti sono ampiamente esaminati in Ghirelli A., Agonismo, Enciclopedia Einaudi, Vol. I, Einaudi, Torino, 1977, pp.215-242., ma anche nei testi cui questo fondamentale saggio fa riferimento (HuizingaHomo ludens, Einaudi, Torino, 1973; Caillois R., I giochi e gli uominiLa maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 1981)

[6] Agonismo, cit.

[7] Individuabile sia negli atleti, vittime di “una coazione a compiere sforzi e a ripetere” sia nei “tifosi” e nei “supporter” in termini di “spostamento dell’affetto su rappresentazioni lontane dal conflitto originario” (cifr., Agonismocit., p. 241).

 

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7 gennaio 2014 2 07 /01 /gennaio /2014 07:32
Mezza Maratona Internazionale di Sarajevo. Si svolse nel giugno del 1997 per portare un messaggio di pace(Maurizio Crispi) Il 22 giugno 1997, si disputò a Sarajevo (nella Bosnia-Erzegovina), dove le devastazioni di una crudele ed insensata guerra civile (e il successivo assedio) avevano appena avuto termine, una Mezza Maratona internazionale per portare, in quei luoghi martoriati e sofferenti, un messaggio di pace attraverso lo sport.
La maggior parte degli atleti arrivarono dall'Italia, trasportati prima in nave da Ancona a Spalato, e poi su due torpedoni che viaggiarono attraverso i territori della ex Jugoslavia con la scorta dei militari delle Forze di Pace (SFOR).
Per via delle particolari condizioni vigenti e della precarietà di un paese, ancora sull'orlo della guerra, all'atto dell'iscrizione si pagava per il pacchetto completo, includente il viaggio in nave da Ancona, tutti gli spostamenti via terra e l'alloggio, in un resort tipo caping con Bungalow, di recente messo in funzione.

Fu una strana sensazione essere lì e sopratutto viaggiare con una scorta militare armata.
Non mi era mai capitato prima.. 
Ancora di più quando ci fermammo a Mostar per una sosta e vedemmo a distanza ravvicinata le devastazioni provocate dalla guerra.
io che ero già stato in là, fui sconvolto dal vedere che il famoso (e bellissimo) ponte a schiena d'asino era scomparso. La transferta fu sofferta, anche perchè molti di noi soffrirono d una forma di dissenteria, contratta a bordo, dove - incautamente - molti di noi ordinarono un piatto di spaghetti al ragù (mai mamgiare piatti con trito di carne in viaggio!)

Ad Ancona, dove giunsi in aereo per i fatti miei, mi incontrai con alcuni altri podisti palermitani della cui partecipazione non sapevo nulla. C'era Giovanni Serio con la moglie Donatella e il collega Maggio (che allora lavorava come ematologo all'Ospedale Cervello).

Mezza Maratona Internazionale di Sarajevo. Si svolse nel giugno del 1997 per portare un messaggio di paceAlla gara parteciparono anche alcuni ragazzi del luogo e alcuni militari del contigente italiano.
Il posto di ristoro fu gestito dalla forza italiana di pace e, prima dello start, la fanfara dei bersaglieri ci ha allietato con le sue musiche.

Dopo la gara, ci fu appena il tempo di girare un po' per quella Sarajevo così orribilmente devastata che stentavo a riconoscerla dai miei precedenti viaggi.
Vidi uno stadio le cui tribune erano parzialmente crollate e dei ragazzini che giocavano a calcio in quell'immensità vuota da dopobomba, cercando di ritrovare attraverso quel gioco innocente - ma sotto sorveglianza armata - una forma di "normalità".
Mi aggirai sgomento all'interno di un grande cimitero, dove si affastellavano le sepolture di persone che erano state tutte uccise durante l'assedio, protrattosi a lungo, dal fuoco crudele dei cecchini annidati sulle montagne circostante.
Ho visto le facciate degli edifici bucate dall'esplosione dell'artiglieria e sforacchiate dai proiettili di piccolo calibro.

Fu un esperienza toccante ed unica.

Fui contento di essere andato.
Ma, dentro di me, soffrii parecchio nel vedere tutta quell'insensata devastazione.
E le tracce di ciò che vidi rimasero a lungo dentro di me.

Conclusi la mia mezza maratona in 1h46'05".
Mezza Maratona Internazionale di Sarajevo. Si svolse nel giugno del 1997 per portare un messaggio di pace




Foto di Maurizio Crispi

Mezza Maratona Internazionale di Sarajevo. 1997 (38 photos)

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3 dicembre 2012 1 03 /12 /dicembre /2012 08:08

Crispi-bifronte_-uno-sguardo-al-presente-e-uno-al-passato-.jpgLeggendo il recente articolo di Daniele Baranzini, fresco della sua seconda esperienza da ventiquattrorista alla 24 ore del Sole che si è celebrata a Palermo tra il 24 e il 25 novembre 2012, all'interno dello Stadio di Atletica "Vito Schifani", è risuonato nel mio cervello qualcosa, in termini di riflessioni e appunti che anch'io avevo avuto modo di fare appena dopo la partecipazione ad una 24 ore su pista. L'articolo che avevo scritto allora, sparito chissà dove nei meandri del PC o salvato con nome in qualche per il momento inidentificabile dispositivo di memory mass, l'ho rintracciato attraverso il motore di ricerca di Google, mettendo un paio di parole chiave che mi ricordavo di aver usato e che "tipizzavano" fortemente il testo.
L'articolo era stato originariamente pubblicato su podisti.net. L'articolo trovato è disancorato da podisti.net (terstata allora online con cui a suo tempo collaboravo) a causa di una serie di cambiamenti sopravvenuti nel corso degli anni e di cambi di provider. La data in cui fu pubblicato non risulta: questa la potrei ricostruire in seguito, consultando il mio archivio cartaceo. In ogni caso, l'articolo è scaturito dalla mia partecipazione alla Lupatotissima 2002 (prima esperienza in assoluto di una 24 ore su pista).
Ecco di seguito l'articolo, così come l'ho trovato, senza alcuna modifica...
Si tratta di penseri e di appunti sparsi: il lungo articolo è, infatti, suddiviso in tanti paragrafi, ciascuno dei quali meriterebbe un approfondimento a sé.
Lancio la palla a Daniele Baranzini, con la speranza che qualcuna di queste idee possa essere rivisitata attraverso il filtro della sua personale esperienza, non solo da sperimentatore delle 24 ore podistiche (come anch'io sono stato per una breve stagione), ma soprattutto come "ultra top", visto che - sicuramente - che con le due esperienze di 24 ore condotte nel corso di quest'anno Daniele si guadagnato un "ranking" di tutto rispetto tra i praticanti in italia di questa specialità delle ultramaratone. 

(Maurizio CrispiNon tutti sanno che ogni anno nei pressi di Verona, a San Giovanni Lupatoto, si corre una gara straordinaria anzi vi si celebrano più gare raccolte in un unico evento podistico davvero “straordinario”: la 24 ore in pista individuale (nella cui cornice l’anno precedente, nel 2001, si era celebrato il Campionato del Mondo 100 km su pista), la staffetta a squadre 24x1h, la maratona in pista (cui quest’anno hanno partecipato due atleti) e, infine, come evento-cornice, una stracittadina non competitiva con la partecipazione di 3000-4000 persone.

Questa mia “avventura” alla Lupatotissima è nata per caso: il mio amico Enzo, mentre perfezionavamo l’iscrizione alla 24h Podistica Castiglionese, mi ha detto “Che ne pensi di fare anche la Lupatotissima?” Io, senza stare a perdere tanto tempo per pensarci su, ho immediatamente replicato con entusiasmo: “Andiamoci!”

È stato così che, in due umidi e piovosi giorni di fine settembre, ho potuto sperimentare per la prima volta l’ebbrezza di una 24h in pista.

Maurizio Crispi alla Pistoia Abetone. Archivio personale di Maurizio CrispiL’impegno mentale nella 24 ore

Facendo un piccolo passo indietro, la 24h è una tipologia di gara che è ancora guardata con molta diffidenza dai cosiddetti podisti “normali” (coloro che – per intenderci – sinora si sono cimentati soltanto nella maratona e – magari – sporadicamente, in un’ultramaratona su strada).

Per i più, rimane una gara “incomprensibile”, dal momento che, in essa, il gesto atletico viene ad essere in qualche misura snaturato dalla necessità di dover durare nel tempo…

Infatti, mentre nelle gare su strada “ordinarie” si deve partire dal punto a per giungere al punto b, cercando di coprire la distanza nel più breve tempo possibile (in relazione alle diverse capacità di ciascuno), nelle 24h, che di norma si svolgono su di un circuito di qualche chilometro (quando sono su strada) e di alcune centinaia di metri (se hanno luogo in pista), vi è un tempo dato (nella tipologia di base: le 24 ore, ma poi ci sono anche le 48h, la sei giorni podistica, la mille miglia etc… Non si finisce mai di sorprendersi…) durante il quale ciascun atleta deve esprimere al meglio la sua capacità di resistenza (e di regolarità), massimizzando le ore che ha a disposizione per coprire il maggior numero di chilometri.

Non vi è, ovviamente, un rapporto diretto tra la capacità di prestazione in una Centochilometri su strada e nella 24 ore: in altri termini, non è detto che – tanto per fare un esempio - un atleta capace di percorrere cento chilometri in 8h, possa accumulare in una ventiquattro ore trecento chilometri.

Mentre in una gara lunga su strada, la psicologia elementare e la spinta motivazionale del podista ruotano attorno al pensiero che prima si finisce, prima si va a casa a riposare, nella 24 ore gli atleti devono confrontarsi con ostacoli diversi e soprattutto con la propria attitudine ad amministrare le energie perché durino nel tempo…

Sicuramente, occorre che un atleta per commutarsi sull’assetto mentale necessario a correre una 24h podistica operi un cambiamento abbastanza profondo nel sistema delle motivazioni e nel proprio assetto cognitivo-esperienziale.

Uno degli aspetti cardine dell’aggiustamento di orientamento al compito richiesto ad un podista che si accinga a correre questa prova, è dato dalla necessità di sospendere e, in qualche modo, ridefinire l’attenzione al paesaggio esteriore per dare invece spazio al panorama interiore: l’atleta che percorre tanti chilometri, senza vedere variare significativamente lo scenario da cui è circondato, deve soprattutto rivolgere lo sguardo dentro se stesso, occupandosi piuttosto del proprio paesaggio interiore (con il quale assunto si vuole significare non solo il riferimento a tutto ciò che riguarda il corpo-macchina, intento alla prestazione, ma anche la mente cognitiva ed emozionale, focalizzata nel compito di gestire la fatica, assorbendola e metabolizzandola).

 

Le mie sensazioni
La decisione di partecipare alla Lupatotissima mi ha tenuto in qualche misura in apprensione, anche se, dentro di me, man mano che si avvicinava il giorno della gara, si andava accendendo l’entusiasmo davanti all’ignoto e alla dimensione dell’avventura… come sempre quando mi trovo davanti ad una cosa nuova che ancora non posso ben padroneggiare, perché non la conosco dall’interno…

L’idea di stare a girare per 24 ore di seguito con un panorama che io, sulla base della mia limitata esperienza di allenamenti in pista, presumevo molto ristretto da osservare, m’incuteva indubbiamente un certo timore… Non amo molto l’anello rosso e preferisco sempre correre all’aperto, sia in città che in luoghi più selvatici, con il piacere aggiuntivo della distanza lineare da coprire e, in alcuni casi, dell’“esplorazione”, soprattutto quando corro in luoghi stranieri e in altre città… So anche dell’avversione di molti ad allenarsi molto a lungo in pista … Quindi, l’apprensione rimaneva e si agitava dentro di me come un fatto molto naturale… Mi chiedevo come sarebbe stata quest’esperienza… Ma, in fondo, avevo la consapevolezza che, anche se in termini di paesaggio “esteriore” durante la gara ci sarebbe stato poco da scoprire, sarebbe stata dentro di me molto viva la promessa della scoperta dell’esperienza stessa e di ciò che mi avrebbe potuto donare.

Ebbene: l’ho realizzata, l’impresa della 24h, in termini modesti (superando di poco i cento chilometri: nulla a che vedere con la performance degli autentici “mostri” presenti): ma quel che conta, è che sono riuscito a stare per 24 ore in pista, dedicando tempi relativamente esigui al riposo notturno.

Sono fiero della riuscita di questa piccola grande impresa, per me e per tutti gli altri con cui l’ho condivisa, anche perché, mentre i podisti che corrono le maratone sono molte migliaia, quelli che si cimentano in questo tipo d’imprese continuano ad essere soltanto poche decine e quindi, in certo modo, sono tutti dei “pionieri”, degli “eroi” ( e vi assicuro che non sto usando questa parola per eccesso di retorica, ma perché penso davvero che siamo autori di un’impresa in qualche modo “eroica”), meritevoli di stima e d’elogio.

Alcune mie impressioni, molto a caldo: innanzi tutto, la pista non è poi così noiosa, come si potrebbe pensare e come alcuni sostengono rifiutando con orrore l’idea di corrervi a lungo, ad eccezione che per compiere i “lavori”.

Certo, si sa che la pista è dura e che bisognerebbe avere qualche consuetudine con le sue caratteristiche, per affrontare questa prova mantenendo nel corso del tempo una certa brillantezza nella performance…  Occorrerebbe avere, nel proprio carnet, qualche lungo allenamento sull’anello rosso giusto per creare le premesse ad una migliore resistenza all’impatto meccanico e alle sollecitazioni sul sistema osto-articolare (e anche, ovviamente, per acquisire dimestichezza con sensazioni somatiche e cinestesiche poco variate).

 

Monotonia e cambiamento

Ma, a parte questo, la pista nell’arco delle 24 ore si è rivelata insospettabilmente varia, a condizione di riuscire ad aprire l’occhio della mente ad un flusso di percezioni sub-liminari, alle quali in condizioni ordinarie non facciamo caso perché – distratti dalle nostre incombenze usuali - non siamo portati ad osservare gli accadimenti esteriori in termini di flusso di variazioni poco percettibili dal cui succedersi dipende la percezione del cambiamento.

Ecco quali sono state per me alcune delle variazioni ricche e stimolanti, nell’apparente uniformità della situazione…

I momenti della giornata e la successione di luci e di cromatismi: cambiano i colori; cambiano gli eventi atmosferici: fa caldo, poi piove (prima, una pioggerella minuta, poi, un acquazzone violento); poi, si vedono i colori cangianti dell’imbrunire; poi, si fa notte e, le cellule fotoelettriche, accendendosi di colpo, intercettano con fasci di luce cruda gli atleti che corrono o camminano sul tratto di pista, scagliando le loro ombre allungate sulle corsie rosse, degne di un film poliziesco hard-boiled…; poi, di nuovo, un diluvio notturno con la pioggia battente che lascia tutti intirizziti come pulcini bagnati sino alla radice del piumino; … poi, ore più tardi, arriva l’alba (quasi alla 18° ora), un’alba grigia e bagnata; poi, di nuovo, si affaccia l’umido bagliore del sole velato dalle nubi… Eventi atmosferici e cambiamenti di luminosità e di cromatismi si collocano in una sequenza continua ed inarrestabile di eventi che impediscono di percepire il movimento di traslazione sulla superficie dura della pista, come monotono e monocorde: si tratta di eventi-emozioni che di solito, in uno stato di coscienza ordinaria, diamo per scontati, di cui non ci accorgiamo nemmeno e che, invece, in questa particolare situazione, entrano prepotentemente nel nostro flusso di percezioni perché appunto rappresentano le variazioni… quelle variazioni di cui la nostra mente ha continuamente bisogno per non scivolare in uno stato di deprivazione sensoriale…

Poi ancora, c’è la rumorosa coreografia della staffetta 24x1h che per alcuni versi rappresenta anch’essa una variazione, uno spettacolo che ci è offerto, mentre siamo intenti nella nostra fatica individuale, ma che, nello stesso tempo, si pone come uno stimolo fastidioso con il suo corteo di schiamazzi, d’incitamenti da parte degli astanti al podista della propria squadra in gara assieme ai rappresentanti delle altre ventiquattro squadre… Avremmo piuttosto bisogno di silenzio e di concentrazione; la nostra è una fatica che non vuole chiassosi incitamenti, ma che richiede raccoglimento e, almeno in parte, introversione…

In realtà, non c’è un “vero” pubblico per noi: se non fosse per familiari ed amici che accompagnano alcuni dei runner sulla lunga distanza, probabilmente ci saremmo soltanto noi e gli organizzatori, più i testimoni accreditati (cioè: i rappresentanti della stampa); la maggior parte del pubblico è qui, principalmente, per seguire le vicende della 24x1h che si celebra con manifestazioni di agguerrita partecipazione e con acceso spirito agonistico.

Non per fare una colpa ai supporter della 24x1h, ma credo che la fatica di coloro che sono intenti nella prova individuale sia per molti “incomprensibile”, perché qui manca il gesto atletico “spettacolare”, perché i ritmi sono relativamente lenti… In effetti, bisognerebbe prima immergercisi per comprenderla pienamente, viverne per intero la durata, anche se da semplice spettatore, e così arrivare a capire, per approssimazione, quale possa essere la fatica dell’atleta che vi s’impegna, ora dopo ora….

Poi, ancora, a scandire il trascorrere del tempo, ogni quattro ore, arriva - benvenuta – l’inversione di direzione di marcia, pensata per distribuire equamente la sollecitazione meccanica su entrambi i lati del corpo, ma anche per offrire ai podisti l’opportunità di un capovolgimento dello scenario percepito. È incredibile costatare quanto, cambiando direzione, si modifichi la prospettiva, cosicché tutto ciò che si era osservato prima diventa in qualche modo nuovo e diverso…

Poi, a scandire i giri che s’inanellano gli uni sugli altri, c’è il trillo continuo del rilevatore dei micro-chip… ad un certo punto, passando dalla zona cambi, mi sono liberato dell’orologio che ritenevo un peso inutile;, mi sono detto, Ma in fondo cosa ho da controllare con l’orologio?… dei giri fatti, dopo poco tempo, avevo già perso il conto; ma se effettivamente uno volesse tenere il computo minuzioso dei giri compiuti, uscirebbe presto fuori di testa… e, in ogni caso, allo scadere di ogni ora arriva nella zona cambi la stampata con tutte le informazioni necessarie; per questi motivi, che importanza può avere controllare l’ora? Quel che conta è che bisogna stare per 24 ore in pista: dunque, i segni dello scorrere del tempo sono scanditi dagli eventi stessi della pista… Non c’è bisogno di avere con sé degli strumenti individuali per la misurazione del tempo… Sono lo scorrere delle sensazioni e la costruzione continua delle percezioni, a dare la misura della variazione.

Poi, ci sono le continue conversazioni che continuamente si accendono con gli altri compagni di corsa… con i quali si corre affiancati per tanti giri di seguito oppure si cammina accanto per pochi metri soltanto, per poi ritrovarsi di nuovo assieme dopo qualche giro… Conversazioni riguardanti le tante storie che ciascuno di noi ha da raccontare… eventi podistici cui si è partecipato … gusti e preferenze e poi, man mano che si va avanti nella notte e si cerca di star svegli, si diventa più inclini alle confidenze personali oppure alla narrazione di eventi della propria vita…

I tipi umani sono anch’essi un motivo di continuo cambiamento: è come se, su di un fondale mobile sfilassero senza sosta dei personaggi fortemente tipizzati di ognuno dei quali, a poco a poco, ciascuno di noi - man mano che i passaggi si moltiplicano – impara a conoscere a fondo un singolo gesto caratteristico ed inconfondibile, come - ad esempio - l’ucraino che ogni volta che ci arrivava alle spalle batteva con un colpo secco, ma leggero, le mani per segnalarci la sua presenza e chiederci strada, per poi profondersi in ringraziamenti con un tentennamento del capo più volte ripetuto, mentre con il suo passetto breve, quasi senza tempo di volo, tornava ad allontanarsi… oppure l’anziano Di Luzio, con la sua fluente barba bianca, imponente e patriarcale, assistito, accudito, curato maternamente dalla moglie, dalla figlia e dal nipote… ma questi sono soltanto due esempi, tra tanti altri che pure meriterebbero una citazione, ma non c’è abbastanza spazio per accoglierli tutti…

 

Individualità e solidarietà

I podisti impegnati nella 24 ore individuale, pur essendo ciascuno di essi intento al raggiungimento di un suo personale traguardo (piccolo o grande che sia), vengono a costituire, di fatto, una piccola comunità viaggiante, che mantiene compatezza e vincoli di solidarietà (una solidarietà che va crescendo sempre più con lo scorrere delle ore), benché si proceda ad andature diverse… perché, prima o poi, ci si ritrova sempre per tornare a condividere un pezzo di strada assieme.

In ogni caso, è la tacita consapevolezza a costituire il tessuto connettivale di questo feeling

Ognuno fa da testimone della fatica degli altri… Ciascuno, quindi, nella misura, in cui questa fatica la sta vivendo in prima persona, è anche intimamente solidale con essa…

Si parla, ma - a volte – è il silenzio il legame più forte: in certi momenti, non sono più necessarie le parole per tenersi svegli, ma semplicemente la consapevolezza del gesto comune e della condivisione della fatica… Non ci si guarda in cagnesco; non c’è l’aggressività reciproca, portata allo spasimo, che poi si traduce nell’agonismo tipico della gara su distanza lineare e che, come contraltare, si può osservare negli atleti impegnati nella 24x1h…

Tutti sono ben consapevoli del fatto che, benché la prova sportiva che si sta compiendo sia individuale, si sta portando avanti, assieme, un’impresa comune, la celebrazione di un rito collettivo, al termine della quale alcuni avranno totalizzato più chilometri, ma sempre tutti assieme, condividendo sino all’ultimo la fatica di stare sulle gambe per 24 ore di seguito.

Certo, ci sono quelli che sono totalmente centrati sul compimento dell’impresa, i primi assoluti, uomini e donne, … Sono quelli che, alla fine delle 24 ore, avranno superato i 200km, come l’incredibile atleta ungherese Edit Berces che, prima assoluta con 250km 106m, nel corso della gara ha inanellato una serie di record mondiali… ma è chiaro che, per realizzare un’impresa di tal genere, bisogna più radicalmente di altri chiudersi alla dimensione collettiva ed entrare in un mondo di riferimenti interiori, in cui tutto deve essere finalizzato al compito che ci si è dati…

 

La 24h come impresa familiare

È in riferimento a questi atleti di punta che emerge drammaticamente la mia convinzione che, per essere i primi, bisogna anche potere esprimere una forte tempra che consenta di stare da soli, di rifuggire dai vincoli e dalle seduzioni del sentirsi parte di un gruppo che supporta e aiuta…

Ma i primi, forse a maggior ragione, dovendo vivere la 24 ore così spasmodicamente centrati sul compito hanno bisogno di supporto, di aiuto logistico da parte di familiari ed amici che in alcuni casi vengono a costituire delle proprie squadre, come nella gare automobilistiche i team che assicurano la assistenza tecnica. ecco, quindi, l’ungherese assistita da una fedele amica che, ad ogni passaggio, le fornisce tutto quello di cui possa aver bisogno; il forte Mazzeo, come sempre accudito dalla moglie, prodiga di amorevoli attenzioni; il severo Sterpin, marciatore di Trieste, aiutato in zona cambi da moglie e figlia; Di Luzio con il suo tri-generazionale team di supporter; il podista originario di Verona, alla sua prima esperienza sulla 24 ore in pista attorniato dai genitori al seguito, mentre la moglie se ne è rimasta a casa … Tutti questi esempi mostrano come la partecipazione ad una 24h individuale diventi una sorta di impresa familiare, cosicché se l’atleta vince (nel senso di raggiungere quell’obiettivo personale che si è prefissato), anche la sua famiglia ha vinto e c’è la forte sensazione di un grido di esultanza che si leva allo scoccare del segnale della fine: Ce l’hai fatta! Noi ce l’abbiamo fatta! 

Ma la presenza di questi supporter familiari crea un alone di sostegno e di calorosità, anche nei confronti di tutti quelli che sono venuti da soli … Quindi, ecco ricrearsi in maniera allargata la comunità, cementata da questo forte vincolo di solidarietà…

Tra le tante cose che ci siamo comunicati per far passare il tempo, il mio amico Enzo mi ha detto ad un certo appunto, a mo’ di commento proprio su quest’aspetto: In fondo, sarebbe giusto che l’organizzazione si preoccupasse di fornire una “famiglia” a tutti quelli che vengono a gareggiare da soli… giusto per dare a tutti lo stesso tipo di confortevolezza…

 

Quel che conta è l’esperienza…

Per finire, la 24 ore in pista è una gara che può piacere o non piacere, ma va vissuta non solo come un’impresa sportiva ma anche come un’esperienza che può insegnarci molto su di noi e sugli altri; è un’esperienza di vita che ci consente di apprezzare lo stare con gli altri in un vincolo di solidarietà e di condivisione; è un’esperienza che, alla fine, ci può consentire di dire, ma comunque dopo aver raggiunto l’obiettivo vagheggiato, una volta concluso il confronto con l’impresa“Ho raggiunto il mio piccolo traguardo e adesso, me ne torno alla mia centochilometri…” oppure ci può rendere più desiderosi di affrontare ulteriori cimenti con questa prova, oppure ancora l’esperienza appena compiuta potrebbe esercitare su di noi una seduzione talmente forte da farci vagheggiare il passaggio ad imprese podistiche ancora più impegnative…

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  • : Ultramaratone, maratone e dintorni
  • : Una pagina web per parlare di podismo agonistico - di lunga durata e non - ma anche di pratica dello sport sostenibile e non competitivo
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  • Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.
  • Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.



Etnatrail 2013 - si svolgerà il 4 agosto 2013


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Il perchè di questo titolo

DSC04695.jpegPerchè ho dato alla mia pagina questo titolo?

Volevo mettere assieme deio temi diversi eppure affini: prioritariamente le ultramaratone (l'interesse per le quali porta con sè ad un interesse altrettanto grande per imprese di endurance di altro tipo, riguardanti per esempio il nuoto o le camminate prolungate), in secondo luogo le maratone.

Ma poi ho pensato che non si poteva prescindere dal dare altri riferimenti come il podismo su altre distanze, il trail e l'ultratrail, ma anche a tutto ciò che fa da "alone" allo sport agonistico e che lo sostanzia: cioè, ho sentito l'esigenza di dare spazio a tutto ciò che fa parte di un approccio soft alle pratiche sportive di lunga durata, facendoci rientrare anche il camminare lento e la pratica della bici sostenibile. Secondo me, non c'è possibilità di uno sport agonistico che esprima grandi campioni, se non c'è a fare da contorno una pratica delle sue diverse forme diffusa e sostenibile. 

Nei "dintorni" della mia testata c'è dunque un po' di tutto questo: insomma, tutto il resto.

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Come nasce questa pagina?

DSC04709.jpeg_R.jpegL'idea motrice di questo nuovo web site è scaturita da una pagina Facebook che ho creato, con titolo simile ("Ultramaratone, maratone e dintorni"), avviata dall'ottobre 2010, con il proposito di dare spazio e visibilità  ad una serie di materiali sul podismo agonistico e non, ma anche su altri sport, che mi pervenivano dalle fonti più disparate e nello stesso tempo per avere un "contenitore" per i numerosi servizi fotografici che mi capitava di realizzare.

La pagina ha avuto un notevole successo, essendo di accesso libero per tutti: dalla data di creazione ad oggi, sono stati più di 64.000 i contatti e le visite.

L'unico limite di quella pagina era nel fatto che i suoi contenuti non vengono indicizzati su Google e in altri motori di ricerca e che, di conseguenza, non risultava agevole la ricerca degli articoli sinora pubblicati (circa 340 alla data - metà aprile 2011 circa - in cui ho dato vita a Ultrasport Maratone e dintorni).

Ho tuttavia lasciato attiva la pagina FB come contenitore dei link degli articoli pubblicati su questa pagina web e come luogo in cui continuerò ad aprire le gallerie fotografiche relative agli eventi sportivi - non solo podistici - che mi trovo a seguire.

L'idea, in ogni caso, è quella di dare massimo spazio e visibilità non solo ad eventi di sport agonistico ma anche a quelli di sport "sostenibile" e non competitivo...

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