(Maurizio Crispi) La tragedia della morte di Carmelo Neri, spirato mentre portava a termine la Maratonina Blu Jonio, lo scorso 30 marzo a Riposto (CT), ha colpito profondamente il mondo del running siciliano, suscitando assieme ai sentimenti di cordoglio, al lutto, al dispiacere, le solite polemiche trite e ritrite, in una ridda di opinioni contrastanti e spesso formulate solo con il senno di poi e sulla spinta di pregiudizi stupidi: "Del tipo aveva 68 anni e non avrebbe dovuto correre".
Oppure: "Correva cntro il parere del medico... non avrebbe dovuto farlo!".
Personalmente, non desidero entrare nel merito di queste polemiche, né voglio alimentarle, dal momento che esse - con il loro clamore - possono soltanto disturbare la pace di un'Anima che forse si è involata via felice dal luogo del proprio decesso, perchè il suo trapasso è stato talmente repentino da passare per lei inosservato: un'Anima che, forse, adesso, seguendo la sua passione, si trova nei verdi campi di corsa di un Altrove che non ci è dato di conoscere, finchè saremo in questa vita.
Nella mia carriera podistica, prima da semplice podista; poi, da podista e giornalista; poi, ancora, da giornalista e fotografo, ma sempre da medico che si occupa di psicologia, di casi come quello di Carmelo ne ho visti a bizzeffe.
E, tra coloro che ho personalmente conosciuto, posso - e voglio - ricordare il grandissimo Roberto Gherardi, presidente della Società podistica che organizza la Mugello Marathon, la decana tra le maratone tricolori, che si è involato come rapito da un soffio di vento, mentre si accingeva a tagliare il traguardo della Maratona di Calderara di Reno, ormai più di dieci anni addietro.
Fu una morte repentina la sua e tutti noi fummo commossi e turbati all'inverosimile.
Cadde proprio davanti ai nostri occhi, per non rialzarsi più.
Non avrebbe più dovuto correre Roberto, proprio lui che era uno dei super-maratoneti italiani più quotati e che si era dedicato con successo, spinto da una passione irrefrenabile anche alle ultramaratone: un anno, ad esempio, disputò la Nove Colli Running (allora su di una distanza dichiarata di 202 km) e il sabato successivo ero pronto allo start della 100 km del Passatore, che quell'anno concluse con un crono di poco superiore alle 10 ore.
Poi il verdetto medico: Il tuo cuore non funziona bene e dovrai astenerti dal correre e dal disputare le gare che ami tanto.
E Roberto per qualche tempo se ne stette buono buono, ma non era più lo stesso, senza la sua corsa.
In barba alle prescrizioni mediche, riprese a correre e a partecipare alle gare (gare che per lui furono le maratone: almeno rinunciò a correre le Ultra che amava tanto), dicendo a tutti che il problema che lo aveva costretto al fermo si era risolto. Ma, invece no, non lo era affatto e lui, egualmente volle correre l'azzardo, consapevole di eventuali conseguenze.
Ma per lui era più importante correre.
La figlia, profondamente addolorata, intervenne nel dibattito che, dopo il cordoglio, si accese alla sua morte: dicendo che sì, il suo dolore era grandissimo, che ne era straziata, ma che nello stesso tempo tempo si rendeva conto che il padre senza la corsa non sarebbe più stato lo stesso e allora, Perchè no? Perchè non avrebbe dovuto farlo?, finì con l'argomentare lei stessa, pur con lo strazio nel cuore.
Non andarono meglio le cose a William Govi, altro notissimo personaggio del popolo delle lunghe, sempre all'inseguimento di Giuseppe Togni per la conquista dell'ambito riconoscimento di maratoneta italiano con ilmaggior numero di maratone corse in carriera. Al termine di una gara, William Govi si accascò colto da Ictus; ricoverato, pur lottando per poter ritornare a stare sulle proprie gambe, non recuperò mai più il pieno controllo della sua motricità ed è morto dopo lunghe sofferenze - soprattutto psicologiche - nella seconda metà del 2013.
Ma ci sono anche di casi di gente morta o incorsa in incidenti cardiaci, mentre si stava allenando molto tranquillamente.
Come non ricordare il caso del compianto Mario Ferrara (Palermo), colpito da una sincope mentre si allenava nella Villa dello Stadio di Palermo e rimasto a terra senza soccorsi per almeno cinque minuti, prima di essere portato in Ospedale per le necessarie cure intensive. Ma non ci fu molto da fare, rimase in coma per circa un mese e poi se ne andò per sopravvenute complicanze.
In altri casi, altrettanto tragici, ci sono podisti che muoiono per fatalità e non mentre stanno correndo, come fu il caso tristissimo di Alfio Balloni, nel lontano 2003 (vedi il ricordo di lui riportato in calce al presente articolo), a causa di un traggico e beffardo incidente che non c'entrava niente con la corsa: un cinghiale gli taglioò la streada, mentre eprcorreva sul ciclomotore lo sterrato cheusciva da casa sua. Per evitare la bestia, paratasi davanti all'improvviso, andò a sbattere lievemente contro il muretto di pietre che costeggiava la via. Un urto lieve, senza apparenti lesioni. Un po' scosso, tuttavia, se ne tornò a casa: nel corso della notte morì, in silenzio, a causa di un'emorraggia interna, provacata dall'urto del manubrio contro la parte addominale.
Oppure, come fu il caso di una altro grande super-maratoneta, Antonino Morisi un ingegnere quasi ottantenne che, essendo ancora attivo rappresentante del popolo delle lunghe (con oltre 300 maratone concluse nel suo curriculum sportio), morì - appena pochi giorni dopo aver corso la sua ultima maratona - colto da infarto, mentre tranquillamente pedalava sulla sua bici.
E ci sono casi di persone colpite da morte improvvisa, mentre non facevano proprio nulla, se non vivere tranquillamente la propria vita.
E dunque? Sia che facciamo sport, sia che non lo pratichiamo, quel momento - se deve arrivare imprevisto - arriverà: è come nei preamboli della storia della Bella Addormetata nel Bosco. Per quanto si cerchi di evitare di pungerti con il fuso letale, ce ne sarà sempre uno - nascosto chissà dove - che, pungendoti il dito, ti dispenserà il Sonno Eterno.
E cos'è preferibile, morire di una morte rapida ed improvvisa, oppure a causa di malattia che progredisce in maniera lenta ed inabilitante, o ancora nella consuzione d'una vecchiaia immobile, in cui tutto ti viene proibito - delle cose che più ti piacevano - perché indulgere in esse ti farebbe "male?
Vale il detto in questa materia: "E' meglio vivere un giorno da leoni che cent'anni da pecora".
Mio padre, dalla forte personalià, attivo e vigoroso, mi confidò una volta, quando ero ancora un bambino di poco meno di dieci anni, parlandomi di un suo collega giornalista, morto d'infarto, mentre a notte inoltrata lavorava alla sua scrivania: "Ecco, questo è il modo in cui mi piacerebbe morire!".
Ed ebbe, in effetti, una morte rapida e - suppongo - indolore, anche se in un modo che non avrebbe mai potuto prevedere.
Io credo molto in due cose:
Uno, nella fatalità e nel fatto che se una cosa deve capiterà, capiterà comunque.
Ci sono cose che non si possono prevenire: capiteranno, per quanto uno sia stato scrupolosamente controllato sotto il profilo sanitario.
Due, nel fatto che uno, sapendo incontro a quali rischi corre, può liberamente scegliere di andare incontro all'eventualità della propria morte.
In Gran Bretagna (e molti sanno come sono meticolosi e attenti alle cose che riguardano la salute i Britannici) vale il principio pragmatico della responsabilità individuale: per la partecipazione alle gare podistiche, anche quelle competitive, anchea quelle più estreme (come sono quelle di 100 miglia. ovvero 161 km) non è richiesto alcun certificato medico di idoneità.
Il principio da applicare tuttavia è "conosci te stesso", affrontando cioè le cose con senso di responsabilità e cercando di mantenere sopraa tutto un valido equilibrio somato-psichico e in una condizione di armonia interiore; e se le cose vanno storte per un proprio errore di autovalutazione o per un azzardo deliberatamente intrapresoallora la responsabilità è solo ed esclusivamente tua.
Due domeniche fa, ad una mezza maratona a cui sono andato mentre mi trovavo a Londra, ad esempio, un runner è morto tagliando il traguardo.
Di fronte a simili casi, si può esprimere il proprio cordoglio, ma nello stesso tempo si può anche argomentare sul fatto che ciascuno possa prendersi la libertà di scegliere cosa fare o non fare, sulla base del proprio senso di responsabilità.
Per fare un riferimento personale, nel 1987 ebbi una grave forma di glomerulonefrite e, se mi fossi attenuto al parere prudenziale del nefrologo - una volta avvenuto il recupero completo dopo circa un anno - avrei dovuto rimanere a riposoper il resto della mia vita. Ad un certo punto, però, mi stufai di vivere da "ammalato" in regime di astensione da qualcosa che solo in potenza poteva essere pericoloso (ma senza alcuna certezza che lo sarebbe stato davvero) e decisi di intraprendere le esperienze delle maratone e delle ultramaratone (e ne ho corse in carriera più di duecento, come il podista catanese che se ne è andato pochi giorni fa).
Mi sono avventurato in un terreno di rischio, e ne ero consapevole, eppure non potei fare diversamente. Ne andava della mia salute mentale.
Certo, per lungo tempo, continuai a controllare scrupolosamente il funzionamento renale, attenendomi ad alcune prescrizioni, prudenziali, ma non accadde nulla di grave. E capii che avevo preso la decisione giusta.
Del resto, morire fa parte del vivere: non si può prendere la vita, senza accettare anche la morte, per come essa sopraggiungerà.
E allora ben venga che si possa morire, mentre si sta facendo ciò che piace di più.
Questa affermazione non vuole essere un'incitazione all'autolesionismo, per carità! Ma piuttosto un'esortazione a non lasciarsi condizionare dal Verbo della Medicina scientista che spesso promana da professionisti che, per quanto impeccabili, di sport praticato per passione non sanno nulla o quasi.
Poter prevenire l'evento morte e allontanarlo il più possibile fa parte della legacy di grandi illusioni fomentate dalla Medicina contemporanea.
L'illusione della prevenzione, in particolare, è concepita in modo tale da diventare una gigantesca gabbia nella quale finiamo con il vivere impriogionati per sfuggire alla Morte, ma nel frattempo nella condizione mentale di chi letteralmente "muore di paura" per le molteplici causa di morte e di eventi patogeni che ci assediano da molte parti.
E una volta che si accetta questo registro di pensiero, è ben difficile uscirne perchè tutte le nostre pratiche quotidiane ne sono profondamente influenzate.
Se non si accogliesse questo principio, allora non ci sarebbero personaggi come Giuseppe Ottaviani che ai recenti Campionati del Mondo di Atletica Leggera Indoor che si sono tenuti in Bulgaria, ha mietuto ben 10 Ori, oppure come Fajua Singh, il maratoneta centenenario che, dopo aver conquistato dei titoli unici ed ineguagliabili, a 102 anni si limita a fare delle corsettine salutistiche con i suoi connanzionali nell'East End londinese dove vive.
(Quello che segue è ciò che scrissi, quando appresi della morte imporovvisa del toscano Alfio Balloni, con il quale avevo corso fianco a fianco una maratona pochi giorni prima).
Alle 18.00 del 19 Giugno 2003 ho aperto la homepage di podisti.net e ho visto che erano stati inseriti tanti brevi testi in cui si parlava di Alfio Balloni: leggendoli, ho capito.
Nelle loro note, gli amici runner delle lunghe distanze ne piangevano la morte sopraggiunta all’improvviso per un tragico caso, proprio il giorno dopo il 2° Super-Marathoner Meeting di Vicchio cui anche lui aveva partecipato (il 14 giugno 2003), allietando tutti con la sua presenza allegra.
Una morte improvvisa dovuta ad un destino crudele che, di colpo, quando se ne è avuta notizia ha reso mesto il ricordo dell’atmosfera della festa appena vissuta...
Io purtroppo sono un po’ distante dalla maggior parte dei rappresentanti del popolo delle lunghe: per questo motivo sono rimasto escluso dalla possibilità di ricevere una comunicazione diretta della triste notizia.
Ma, sino a al momento in cui ho appreso della sua morte, per me Alfio è stato vivo, così come l’ho conosciuto in tanti campi di gara.
Mi dolgo comunque della mia mancanza di tempestività nel partecipare al cordoglio per questa morte.
Leggendo i brevi, commossi, articoli degli altri amici runner, sono rimasto profondamente costernato, anzi addoloratissimo.
Nel corso degli anni, incontrando Alfio nei più diverse maratone, sempre sono rimasto colpito dalla grande simpatia e cordialità che da lui promanavano come una sorta di aura.
Il ricordo della giornata podistica di Vicchio ora sarà per sempre suggellato da questo triste evento, che si è verificato subito dopo, in compimento di un imperscrutabile e tragico destino, tracciato dalla mano di un demiurgo che, di tanto in tanto, esige anzitempo il pagamento di un caro tributo proprio da parte di quelli che uno vorrebbe trattenere più a lungo accanto a sé.
Il berrettino con i finti coni gelato semiliquefatti che Alfio sino a qualche anno portava nelle maratone, assieme a pochi altri amici “eletti”, mi è sempre piaciuto tantissimo: e diverse volte, sino a che lo ha portato, quando lo incontravo gli dicevo: Dai Alfio, fammi entrare nel tuo club! Già! Il club dei gelatai…
Mi sono chiesto se potesse avere un senso continuare a lavorare a questo secondo articolo in cui tanto insisto nel parlare dell’atmosfera di festa a Vicchio.
Ma poi ho pensato che Alfio era stato lì con noi e che sicuramente avrebbe desiderato che lo ricordassimo assieme a noi in questi momenti.
Quindi a te, Alfio, runner gentile, voglio dedicare questo mio scritto.
Caro Alfio, con il tuo sorriso e con la tua simpatia, rimarrai a lungo nei nostri cuori e nel nostro ricordo.
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