(Maurizio Crispi). Ho sempre fatto nella mia vita dei sogni in cui correvo e, se non correvo, camminavo lungo una strada senza fine. In entrambi i casi, se cambiavano di volta in volta gli scenari sogno era sempre quello. Io camminavo o correvo lungo una strada in totale solitudine, il più delle volte in silenzio.
Questi sogni appartenevano indubbiamente alla categoria dei "sogni ricorrenti".
Quando inziai il mio percorso psiconalaitico, il mio psicoanalista - quando eravamo ancora lontani dall'addentrarci nei reami dll'inconscio (il mio) - mi chiese, tanto per rompere il ghiaccio - e per sottolineare l'importanza dei sogni in quanto materiale da esaminare, se avessi mai fatto dei sogni ricorrenti.
Io gli parlai - quasi orgogliosamente - di questo genere di sogni.
Lo dissi "orgogliosamente", perchè questi sogni - considerando che proprio in quel periodo avevo cominciato a correre a lungo, anche se ancora in maniera non finalizzata alla partecipazione alle gare - mi facevano sentire un "diverso" e mi parlavano di un mio intimo desiderio di viaggi, di esplorazioni, di avventura (ma c'era anche questa nota dominante di solitudine e di isolamento che, poi, ritrovai - interpretata alla grande ne "La Solitudine del Maratoneta" di Alan Sillitoe).
Ho compiuto il mio percorso psicoanalitico (anche in questo caso si trattò di un viaggio), ho imparato a conoscermi meglio ed ho acquisito degli strumenti per continuare a guardare dentro di me, trovando delle chiavi di lettura e di comprensione per certi accadimenti psichici, eppure quei sogni sono rimasti (e, in fondo, il viaggio continua sempre, inarrestabile).
Si ripresentano sempre, di quando in quando.
Non sono sogni d'angoscia, semmai tali da generare in me un senso di grande meraviglia.
Amo questi sogni... forse perchè fanno riferimento alla mia più profonda identità.
Ma c'è anche dire che, in taluni casi, la nostra attività di corsa diventa un interrutore che accende uno stato sognante (dreamy state) della nostra mente
Quello che segue è di questa notte (12.11.2013).
Sto partecipando ad una gara di ultramaratona attraverso l'Italia.
Si corre da Nord a Sud in tappa unica, giorno e notte, di continuo.
Non ci sono posti di ristoro.
Per riposare ci si mette per terra, sotto qualche riparo, e si dorme per il tempo ncessario
Il percorso non è segnato e di volta in volta si deve intuire qual'è la strada giusta, sulla base di indizi e di una traccia appena abbozzata su di una cartina geografica di cui i partecipanti sono dotati (una sorta di roadbook estremamente rudimentale).
Ogni tanto io - come gli altri partecipanti - ho la sensazione di essermi perso, ma poi recuperavo sempre la strada giusta.
A volte, la strada asfaltata è tutta coperta da una fitta vegetazione, come se fosse stata abbandonata da lungo tempo.
Qualche volta, corro affiancato con altri podisti pure impegnati nell'impresa, compagni di corsa e di viaggio.
Altre volte li vedo, davanti a me, come puntini distanti ed evanescenti.
Ad un certo punto, mi si affianca il grande Boris Bakmaz e, per pochi istanti, chiacchieriamo ed io mi sento oonorato della sua compagnia.
Poi, lui riprende a correre con il suo passo più svelto e costante ed io rimango di nuovo da solo.
Ogni tanto un'auto degli organizzatori si affianca a me o agli altri per chiederci se tutto sia a posto.
Quando sono ormai in prossimità dell'arrivo, per proseguire bisogna passare attraverso una casa diruta senza infissi, porta e finestre come occhiaie vuote dal contorno tutto sbrecciato: affacciandomi all'apertura che si apre sul lato opposto vedo soltanto una distesa d'acqua apparentemente infinita.
Arriva il sindaco del paese che da lontano e a gesti mi indica che è proprio quella la direzione da seguire.
Basta che io abbia fede.
Rientro nel rudere, perplesso.
E vedo che a terra c'è un libricino brossurato con la copertina rossa tutta gualcita. Lo apro e sembra che sia una raccolta di poesie, ma i caratteri sono quasi illeggibili per via della lunga esposizione alle intemperie e all'umido, e le pagine stesse cominciano a sbriciolarsi mentre le sfoglio.
Ma c'è anche un altro libro, pesante e rilegato in cuoio che, ad occhio e croce, sembra in migliori condizioni.
Lo prendo e lo soppeso tra le mani chiedendomi, se sia il caso di aprirlo oppure no.
Penso che se si può ancora leggere, forse aprirlo sarebbe letale ai fini della prosecuzione della mia corsa, perchè non resisterei alla tentazione di cominciare a leggerlo.
E addio corsa!
Oppure, mi scatta la domanda: "Che non sia proprio questa la via per proseguire la corsa? Che il libro non sia una "porta" che conduce ad una strada nuovamente praticabile?"
E con questo interrogativo che rimanda ad enigma insondabile si conclude il mio sogno.
Palermo, 12 novembre 2013