L'Enigma della Sfinge è il primo “indovinello” della storia di cui si abbia documentazione: secondo il racconto mitologico, veniva posto dalla Sfinge all'ingresso della città di Tebe ai passanti e chi non era in grado di risolverlo veniva divorato dal mostro e le sue ossa lanciate ai piedi del dirupo su cui la Sfinge dimorava.
La forma più conosciuta con la quale è giunto a noi è - più o meno - la seguente: “Qual è l'animale che al mattino ha quattro zampe, a mezzogiorno ne ha solo due e alla sera tre?", mentre un'altra variante conosciuta recitava: "Chi ha una voce e quattro zampe al mattino, due a mezzogiorno e tre la sera?"
Molti furono i viandanti che non seppero rispondere e che furono divorati dalla Sfinge: solo Edipo, sulla via di Tebe, in accordo con la profezia da tempo conosciuta da Laio seppe rispondere correttamente e la Sfinge – in preda all’ira - si gettò giù dal dirupo, lasciandogli la via libera.
Qual’era la risposta? È ovvio, perché noi siamo ormai scafati e conosciamo la storia di Edipo, nota e arcinota: quell’animale dell’indovinello è l’uomo che gattona da piccolo, cammina gagliardamente eretto nella maturità e che, da vecchio, ha bisogno di appoggiarsi ad un bastone.
Con Edipo, sembrerebbe verificarsi una svolta epocale che implica una riflessione e una consapevolezza sulle diverse età della vita, mentre era come se, prima di Edipo, questo aspetto non fosse così evidente e che, soprattutto, mancasse una capacità di autoriflessione sul tema dell’evoluzione, della trasformazione e dell’invecchiamento
Disconoscere le diverse età dell’uomo comporta che si verrà divorati dalla Sfinge, dunque l’annientamento immediato, mentre invece il loro riconoscimento, comporta il fatto che ciascuno possa sopravvivere all’incontro con la Sfinge ed essere libero di camminare verso il suo Destino, quale che sia.
A volte penso che a molti di quelli che praticano con determinazione rigida lo sport, infliggendosi gare faticosissime e carichi di lavori non indifferenti, insensibili ai cambiamenti nel loro corpo, legati all’invecchiamento, - anzi incrementando sempre di più il carico, man mano che gli anni passano, quasi in una dissennata corsa verso la dissoluzione - siano come quei viandanti che, non sapendo rispondere all’enigma sulle età dell’Uomo, si lasciano divorare dalla Sfinge, anziché trovare una via di sopravvivenza.
Perché questa riflessione?
Nasce da un incontro ed una conversazione, che si è svolta in quei di Pistoia.
Incontro uno che è messo lì, a 500 metri dal traguardo che guarda gli arrivi della Pistoia-Abetone. Io non lo riconosco, lui sì e mi interpella: Sei Crispi, vero?
Sì! Sono io!
Non mi riconosci?
No, in questo momento no... mi dispiace, non sono molto fisionomista…
Ci siamo visti tante in molte gare, per esempio tanti anni fa eravamo insieme a Vicchio… [si riferisce alla prima edizione della Maratona di Vicchio sul Mugello, organizzata dal compianto Roberto Gherardi e riservata, ad invito, agli aderenti al Club dei Supermaratoneti]
Per un po’, rimaniamo in silenzio, mentre io indugio a fotografare i passaggi.
Poi, nell'attesa tra un passaggio e l'altro (ancora ci sono degli intervalli piuttosto lunghi tra un podista e quello successivo) chiacchieriamo un po'.
Non lo sai cosa mi è successo? – mi dice.
No. Cosa?
Mi stava finendo come a Roberto Gherardi…
Per chi non lo ricordasse - ma nel mondo del podismo amatoriale, del "popolo delle lunghe" tutti lo ricordano - Roberto Gherardi valente maratoneta e ultramaratoneta (era capace di fare la Nove Colli Running e, dopo appena una settimana, correre la 100 km del Passatore, con un tempo attorno alle 10 ore), ad un certo momento cominciò a soffrire di una patologia cardiaca, ma contro il parere dei medici e contro la volontà dei familiari, riprese a correre, ritenendo che solo la corsa fosse per lui fonte di vitalità e di realizzazione, invischiato – purtroppo – in una sorta di coercizione. Ma è chiaro che, quando tornò a correre, dopo una pausa di circa un anno, non fosse più quello di prima, anche se sempre con tempi di maratona tra le 4 e le 5 ore: accadde che, a 50 metri dal traguardo della Maratona di Calderara di Reno, si accasciò a terra in arresto cardiaco e non ci fu niente da fare per rianimarlo. Se ne andò così, lasciando il mondo podistico costernato e addolorato.
Mi si è fermato il cuore, durante una maratona. – ha continuato il mio interlocutore - Per fortuna mi hanno soccorso subito e mi hanno portato in ospedale. Sono rimasto per qualche tempo in coma e quando mi sono risvegliato, non era successo niente, cioè non ci sono stati danni neurologici, anche se ai miei avevano detto che ce ne sarebbero potuti essere al mio risveglio e che avrei potuto ritrovarmi come un vegetale.
E adesso corri?
No, ancora non ho ripreso... Vengo a guardare... Mi ritengo fortunato. E non parliamo di Govi poverino... – ha aggiunto.
Perché – faccio io - cosa gli è successo? [William Govi, dopo Giuseppe Togni, è il maratoneta con il maggiore numero di maratone corse in carriera: circa 600, anche se da un certo momento in poi si è distaccato dal Club degli Ultramaratoneti, fondato da Sergio Tampieri].
L’anno scorso, eravamo nel 2010, William stava facendo una gara a staffetta su di un circuito di 200 metri,- questo il racconto del mio interlocutore -la sua era una delle ultime frazioni e, all’improvviso, si è accasciato a terra, ma siccome l’incidente si è verificato nel punto più distante del circuito di gara, è stato soccorso in ritardo. Quando si è risvegliato dal coma, c’erano dei danni neurologici, non poteva parlare bene ed anche camminare solo con molte difficoltò. Adesso è ancora in terapia di riabilitazione e rientra a casa, ad Albinea, solo il sabato e la domenica, dove le due sorelle si occupano di lui.
E poi Toschi...
Cosa gli è successo?
Gli è gonfiata l'aorta nel petto. Come si chiama quella cosa lì? Lo hanno dovuto operare...
Ah! Allora, se mi dici questo, - dico io, forte delle mie competenze mediche -è stato un'aneurisma...
Sì proprio quello...
Ma io l'ho visto che correva ad una gara di poco tempo fa...
Sì, poi ha ricominciato a correre... Non si arrende... Poi è morto Sergio Tampieri [ma almeno lui, di malattia naturale, penso io, non falcidiato dalla sua testardaggine]
Se ne vanno tutti, fra poco non ne rimarrà nessuno – chiosa, per chiudere in qualche modo i suoi tristi pensieri.
Dopo una pausa di silenzio, gli chiedo: E tu? Non corri?
No io preferisco non correre adesso. Vengo a guardare le gare e i miei amici che gareggiano
E tu? - rivolgendo a me la stessa domanda.
Io? Io corro durante la settimana 40-50 minuti, ma non gareggio più. Troppa fatica e poi mi diverto di più così: gli indico la macchina fotografica.
Da qui scaturiscono le mie riflessioni.
A volte, perché io stesso ci sono passate, si rimane impigliati nella vuota retorica del Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora, mentre invece bisognerebbe avere la saggezza di riciclarsi, trasformarsi, crescere, accettare i cambiamenti, anziché negarli e andare a vanti alla cieca verso il proprio destino come i lemming che periodicamente, a migliaia, presi da una sorta di follia collettiva si gettano in mare da una rupe (anche se poi questo fenomeno s'è rivelato essere più che altro una "leggenda", utilizzata come metafora, e non un comportamento effettivamente riscontrato con criteri di osservazione scientifica).
Perché c’è quest’ansia della performance, questa difficoltà - quasi morbosa - a staccare e a rilassarsi un poco?
Credo che, innanzitutto, ci sia l'idea di essere invincibile ed inossidabile: e questo sentire abbassa pericolosamente le capacità di autocritica, portando a non vedere i cambiamenti e i piccoli sintomi-spia, a minimizzarli, a non ascoltare il corpo che ha bisogno di tempi di recupero più lunghi.
Ma poi c’è anche l'idea che, se ci si ferma, si è perduti, nel senso che si perde tutto l'allenamento e non si riuscirà più a riprenderlo.
Non manca anche una specie di ansia sociale: il timore, in altri termini, di non essere più visibile, a cessare di esistere come podista che compie imprese mirabolanti e che deve andare sempre al rialzo per essere "interessante", non piuttosto al ribasso, in funzione della riduzione delle risorse somatopsichiche e della capacità di recupero; la paura di essere dimenticato; la paura di perdere la propria identità sportiva; la vergogna di non sapere cosa rispondere alla fatidica domanda: ma tu non corri più? C’è qualcosa che non va? Come se la rinuncia a correre rappresentasse una macchia infamante per il proprio Sé e per la propria irrinunciabile identità di podista; il timore, infine, di essere compatito o dileggiato da passati “compagni d’arme”.
Un coacervo di ragioni diverse e disparate, insomma: bisogna imparare ad accettare le metamorfosi e a convivere con esse, anziché procedere in avanti in modo monocorde e monolitico.
Quello che occorre fare, prima di giocare una partita che potrebbe rivelarsi perdente, è spezzare il cerchio della dipendenza e della coazione a ripetere che, alla lunga, nei suoi effetti ultimi, potrebbe rivelarsi mortifera ed insensata.
In fondo, non è necessario vivere pensando che bisogna sempre "tenere botta" o "stare in campana": ad un certo punto, si possono anche deporre le armi, appendere - metaforicamente - le scarpe da corsa ad un chiodo e fare qualcosa d'altro, per scoprire magari che la cosa che ci piaceva di più, nella pratica della corsa reiterata e della partecipazione no-stop a eventi agonistici nei luoghi più disparati, era la dimensione del viaggio, che era quella la molla propulsiva che ci spingeva a muoverci su e giù per l'Italia ed anche all'estero, all'inseguimento dei più svariati eventi di maratona e ultramaratona, per poi compiere - dopo il viaggio di "avvicinamento" - la gara, che era di per sé un altro viaggio che era contenuto in quell’altro viaggio ed insieme metafora della vita, come in un sistema complesso ed articolato di scatole cinesi.
Ciò che ci rende liberi, tuttavia, racchiude in sé anche l'embrione delle prigionia, se cominciamo ad utilizzarlo in maniera coatta.
Quando guardiamo gli uccelli che volano, ci può capitare di pensare che le loro ali siano il veicolo di una libertà che a noi è preclusa perché quelle ali li conducono leggeri alti nel cielo, ma nello stesso tempo - osservando le cose secondo un'altra prospettiva – quegli stessi uccelli che sembrano liberi e leggeri sono prigionieri delle catene del cielo, perché non possono fare altro che volare.
Magari, se ci schiodiamo da un modo di valutare le cose poco duttile, potremmo avere la buona sorte di scoprire che il fascino maggiore di “andar per maratone” è il viaggio e allora, potremmo anche riciclarci nel sistema delle gare non competitive o delle camminate di fit e nordic walking, oppure ancora - in un percorso trasformativo e di crescita del nostro sé - approdare addirittura alla dimensione del pellegrinaggio per cominciare ad esplorare la via francigena oppure Il Cammino di Santiago.
Uno dei motti più celebrati degli Alcoolisti Anonimi recita così: Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare; il coraggio di cambiare quelle che posso, la saggezza di poter conoscere la differenza.
Quando ero piccolo rimasi molto colpito da un film in bianco e nero che mio padre mi portò a vedere: era la storia di uno pieno di vitalità e gioiosità che, da bambino, essendo un trovatello, venne adottato dai frati di un convento per poi diventare lui stesso frate. Il passare degli anni veniva mostrato con delle riprese su di una scala a chiocciola che i frati usavano per spostarsi da un piano all’altro, una scala che andava percorsa in salita o in discesa più volte al giorno, per le varie esigenze della vita conventuale. Da ragazzino e da giovane monaco, il protagonista le percorreva in su e in giù, andando a grandi balzi, nell’età adulta prima correndo e poi a passo svelto, ma sempre vigorosamente, infine - nella vecchiaia - con passo sempre più lento e stanco, aggrappandosi con forza al passamano: e poi niente più.
Ecco, bisogna saper accettare, i necessari cambi di andatura senza intestardirsi a correre, quando il nostro corpo non ne vuole più sapere: allora bisognerà camminare oppure appoggiarsi ad un bastone.
Insomma, in poche parole, bisogna sapere accettare il declino, il tramonto e la fine che si profila al di là dell’orizzonte: in altri termini la nostra impermanenza e fragilità.
Quando ero ragazzo, mi capitava di incontrare nel Circolo di Canottaggio, che allora frequentavo, un famoso scultore palermitano ormai ultra-ottantenne (Geraci, si chiamava, autore di alcune statue in bronzo che adornano la mia città). In gioventù, aveva praticato il canottaggio ed era sua abitudine uscire ogni giorno per una lunga – per quanto a ritmo lento – vogata. Io e il mio compagno di armo eravamo appena diciottenni, giovani e vigorosi: quando ci vedeva che ci accingevamo ad uscire in barca per il nostro allenamento, Geraci ci diceva: Picciotti [in siciliano per dire "ragazzi"], mi raccomando, se abbatto, riportatemi a terra.
Noi giovani, alla sua richiesta, ridacchiavamo, dicendoci: “Ma è scemo?” e, considerando le sue parole come espressione d'una sua interiore bizzarria o come sintomo di insenilimento, annuivamo, ma senza mai prenderlo troppo sul serio. Il suo pensare ci era estraneo: non avevamo idea di cosa potesse significare, in termini di esperienza, il declino delle proprie forze.
Ma, in verità, ora che ci penso da adulto che presto transiterà nella senescenza, credo che quella sua frase fosse, molto in sintesi, una riflessione sulla morte immanente e sul senso e sull'accettazione del proprio limite che tutti noi, prima o poi, dovremmo cominciare a coltivare per potere essere pronti, quando verrà il giorno.